Salute e prevenzione
20/09/2019
È il progetto Interceptor del ministero della Salute e Aifa, per identificare i biomarcatori della malattia
Il 21 settembre è la Giornata mondiale dell'Alzheimer, un'occasione per dare visibilità e ricordare le problematiche che questa malattia neurodegenerativa crea per il paziente e per i famigliari che lo assistono. E per fare il punto della situazione su cosa la ricerca scientifica da un lato, e le istituzioni dall'altro, stanno facendo per trovare una cura e per rendere l'assistenza ai malati più efficace.
I freddi numeri ci dicono che con l'invecchiamento progressivo della popolazione, anche la percentuale di malati di Alzheimer - che è la forma di demenza più frequente - aumenterà: "Nei prossimi trent'anni - scrive Davide Michelin su Repubblica - i malati di Alzheimer nel mondo cresceranno dagli attuali 50 a 130 milioni. In Europa, si stima che 10,5 milioni di persone vivano con demenza e si prevede che questo numero aumenterà a 18,7 milioni nel 2050. In Italia l'8% degli anziani ultrasessantacinquenni e fino al 20% degli ultra ottantenni sono affetti da demenza. I casi nel nostro Paese sono oltre 1,2 milioni, dei quali circa 600 mila affetti da Alzheimer".
La scienza ancora non ha trovato una cura per l'Alzheimer: è una malattia così complessa che ancora non sono state individuate nemmeno le cause precise che la scatenano. Tuttavia già oggi si può lavorare e investire in due fattori determinanti: la prevenzione e la diagnosi precoce. Se oggi l'Alzheimer non può essere curato, è però vero che la sua manifestazione può essere allontanata e il suo decorso rallentato. La strada maestra è fatta di buone abitudini: alimentazione sana, esercizio fisico e allenamento cognitivo. Per una diagnosi precoce dobbiamo aspettare invece il 2022, quando si avranno i risultati del progetto Interceptor, avviato nel 2017 da ministero della Salute e Agenzia del farmaco. Dall'osservazione negli anni di 400 pazienti con lievi deficit cognitivi, di età compresa tra 50 e 85 anni, i ricercatori puntano a identificare i marcatori biologici più appropriati della malattia, stilando una serie di parametri fisiologici che potrebbero affiancare i test neuropsicologici ora in uso ai fini, appunto, di una diagnosi precoce. Ciò permetterebbe di intervenire quando i sintomi dell'Alzheimer sono ancora lievi, rallentandone il decorso.
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